Se ascolto il jazz oggi è perché sono cresciuto con gli Helmet

Ultimamente si sta parlando sempre di più di jazz in trasmissione. Lo abbiamo fatto con Tommaso Cappellato – con l’ultimo disco uscito per Hyperjazzrecords -, nelle puntate precedenti ed è risultato essere uno dei tre generi che stiamo trattando di più in questa terza stagione, insieme all’Hip Hop e al nuovo Post Punk.

Nella puntata #30 (il podcast lo trovate qui), oltre all’intervista a Theo Taddei per il suo disco d’esordio – ascoltatelo e compratelo, sarà uno dei dischi più belli della musica Italiana nel 2020 – vi ho raccontato dei dieci dischi che hanno cambiato il mio approccio musicale. Ho scritto un piccolo pippone in una pagina di questo blog.

Ho sempre considerato il Jazz un po’ noioso, schematico, accademico, poco aperto all’emotività; ho sempre considerato il Blues più vicino a me. C’è sempre stata, in fondo, questa diatriba tra due enormi mondi musicali e culturali, tante volte alla stregua di due tifoserie di calcio schierate a darsi sassate (il concetto del pallone e tifo ce l’abbiamo nel sangue, non c’è niente da fare). Ammetto anche che è sempre stata una non necessità di approfondimento, non era il momento, mi piaceva altro e quindi non l’ho mai considerato tale da investire del tempo per conoscere di più l’argomento. Sono fasi della vita, niente di strano.

Nell’ultimo anno e mezzo tutto ciò è cambiato e, complici un paio di dischi conosciuti, ho iniziato ad acquisire più confidenza con la materia e a gettarmi negli ascolti di formazioni e progetti musicali appartenenti al presente. Ho sempre fatto così con le nuove scoperte; non è una cosa così scontata, ve lo assicuro, conosco molti che partono dai dischi che hanno fatto nascere un genere musicale.

Tornando ai dieci dischi “spartiacque”, tra questi ho necessariamente inserito il quarto album – Aftertaste – di inediti dei newyorkesi Helmet, band nata nel 1989 e fondamentale per la nascita e sviluppo di quello che viene definito come Alternative Metal: a metà tra lo spirito eccentrico dell’Hair Metal e il nichilismo del Grunge, favorì poi la nascita del Nu Metal (o Rap Metal), genere musicale che univa la potenza dei chitarroni distorti alle sezioni ritmiche e cantati vicini tipici dell’Hip Hop. Ho detto “necessariamente” perché quel disco fu per me rivelatore di un mondo, il loro, a cui capii di appartenere in toto.
Il sound massiccio e diretto, una sezione ritmica martellante, le chitarre secche e taglienti e un cantato monocorde erano gli ingredienti che facevano (e fanno) degli Helmet uno dei gruppi più singolari che abbia mai ascoltato, tanto da non essere mai riuscito a trovare una band “clone” o molto simile. Tra l’altro, Aftertaste fu il disco più chiacchierato della prima versione della band (si sciolsero poco dopo per ricomparire con una formazione rivoluzionata; operazione abbastanza inutile) ma era il 1997, io avevo 14 anni e quel disco mi arrivò in faccia come un cazzotto ben assestato – in effetti, andando poi a ritroso nella discografia, quello fu l’album più “commerciale” del gruppo.

Page Hamilton, Henry Bogdan e John Stanier ( Battles, i Tomahawk di Mike Patton, The Mark of Cain; uno dei migliori batteristi in circolazione in quel periodo e creatore di un nuovo stile) furono i tre a firmare Aftertaste – con un secondo chitarrista i precedenti dischi. Gli Helmet per me, e per tutti, rimangono quelli dei ritmi sincopati, dei tempi dispari o forzatamente pari, della combinazione di accordi fuori dagli schemi, degli assoli da macellaio di Page Hamilton, e dei fraseggi jazz in brani totalmente inusuali, all’interno di dischi che rimangono tutt’ora delle pietre miliari del Rock e dei modelli di stile.
Page Hamilton formò gli Helmet nel 1989 quando scoprì cosa voleva dire suonare una chitarra distorta. Fino ad allora era stato un promettente studente di chitarra Jazz.

P.s. lascio qui sotto il link per dare un ascolto alla loro discografia ma sottolineo che i veri Helmet sono quelli dal 1992 al 1997, dopo c’è il nulla.

  • Aprile 29, 2020