L’arte di correre con gli Slowdive alla Pasquetta Color Fest
Nell’infinito girone dell’inferno mangereccio in cui noi occidentali benestanti cadiamo durante ogni Pasqua, si susseguono spesso feste e concerti vari, un po’ perché c’è quel fine settimana più lungo del solito e i paesi si ripopolano di gioventù vecchia e nuova (mentre, magari, le grandi città si svuotano), un po’ perché abbiamo sempre una buona scusa per festeggiare.
La Pasquetta alternativa e alternative alle solite scampagnate in cui, guarda un po’, qui al Sud si mangia, è stata per me quella del Color Fest che, tra l’essere lì per lavoro e anche per piacere – che poi spesso si tramuta in lavoro comunque, chissà perché – mi ha tolto tanta energia ma mi ha dato il polso della situazione musicale della regione: le band calabresi esistono, sono talmente tante che in una giornata intera di live non ci entrano tutte; sono tutte di buon livello (facendo una media tra diverse che hanno qualità molto alte e altre che raggiungono comunque una dignità più che apprezzabile); sono composte da persone dalle età più disparate; suonano forte anche solo con una chitarra in mano, fanno generi diversi e se ne fottono, fondamentalmente. Se ne fottono delle classifiche, dei trend e si identificano in quello che loro sentono in quel momento, magari anche un po’ anacronisticamente rispetto a quello che chiede il mercato ma in maniera del tutto genuina.
Pensavo a questo mentre facevo la mia corsa martedì mattina per ritrovare l’energia persa durante una giornata intera di lavoro (circa 18 ore in piedi), sgombrare un po’ la mente dalla confusione ancora nelle orecchie di centinaia di persone.
Lo facevo ascoltando però l’ultimo disco degli Slowdive di ritorno nel 2017 dopo 22 anni di assoluto silenzio, mentre andava lentamente via la mia curiosità nei confronti di un’attesa così forte per questo grande ritorno da parte di tutto il mondo musicale; ed è anche per questo che lo ascolto a distanza di mesi dalla sua uscita, perché non amo troppo chiasso intorno all’uscita di un album, snatura il rapporto intimo che ho con la musica. Un disco che ha lasciato molto amaro in bocca a molti, perché la band ha segnato, seppur con soli tre dischi, gran parte della vita dello shoegaze mondiale.
Non è mia intenzione farne una recensione ma semplicemente ammettere che il disco è l’effetto di quella continuità persa e si risolve in molti dei cliché del genere attraversati da quel senso di nostalgia continua per un’epoca che non esiste più.
Una continuità che è necessaria per la prosecuzione di un’opera, per non spezzare il ritmo.
Quest’ultima dichiarazione l’ho letta nell’ultimo libro di Murakami che sto leggendo; si chiama “L’arte di correre” ed è un libro sulla corsa, fondamentalmente, che ho iniziato a leggere proprio martedì sera, mentre ripensavo alla mia corsa della mattina fatta per sgomberare un po’ la mente dalla confusione del giorno di Pasquetta, anche se nelle orecchie avevo l’ultimo disco degli Slowdive, quello del 2017.